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Street, photografy: non pensare, scatta

“Se le vostre fotografie non sono abbastanza buone, vuol dire che non siete andati abbastanza vicino”.
Robert Capa

DETTAGLI  E CONSIGLI COME ANTEFATTO
Chi ha conosciuto la camera oscura prima o poi rischia di ritrovarsi a tagliare le foto digitali dandogli la forma quadrata. È il 6×6. Non si sa bene perché accada. È un fenomeno strano, come quello della cosiddetta regola aurea che trovi applicata pure in natura, dall’alveare alla forma dei semi del girasole e così via. Con la street – photografy ogni tanto verrebbe la voglia di inclinare l’immagine, di lasciare l’orizzonte (il mare …) inclinato quando hai ripreso, a esempio, un bambino intento a rovesciare il pallone e lo vedi lì, fermo per un attimo che pare eterno in aria, come fosse Maradona e forse lui lo stava pensando in quell’attimo, pronto a correre, dopo, tra le braccia di Bruscolotti, il difensore spezza gioco, quando non aveva la pancia che orgogliosamente esibisce anche a Quelli che il calcio. I puristi direbbero che no, che non  va bene quel mare così. Hanno ragione, purtroppo, e quindi te ne stai per un tempo indefinito a raddrizzare e tagliare. Osservi di nuovo la foto e ti accorgi che la posa del bambino è ancora plastica ma ha perso in capacità comunicative, così come sempre Bruscolotti ha parzialmente perso la forma fisica ma non l’accento di Sassano (SA), che lo lega, fenomeno encomiabile, alle antichi origini lucane dell’intera zona. Ritornando al bambino. Fai uno sforzo, fingi di non accorgertene e pubblichi la foto nel web rispettando la linea dell’orizzonte. I puristi non sanno cosa si perdono ma l’importante è che tu, nel modificare la foto, hai conservato l’originale. Potrebbe tornare utile così come è nato: difettoso. Inutile dire, ripeterlo, che è fondamentale conservare lo scatto originario. Sono molti i programmi che consentono di modificarlo e alcuni sono scaricabili gratuitamente dal web. A esempio: PICASA 3. Potrà tornare utile anche se hai fatto una scansione (suona troppo violenta l’altra parola in voga: scannerizzato) della vecchia foto analogica. Basta digitare appunto PICASA 3 in Google e in pochi minuti si avrà, gratis, uno strumento capace di farti dare uno sguardo di assieme a tutte le immagini, divise per cartelle, contenute nel p.c.  Si potrà correggere eliminando graffi e altri difetti, desaturare e ricavare da quel maledettissimo colore un bianconero di qualità (prudenza: non sempre …). Potrai zoomare, patinare, tagliare, raddrizzare, selezionare il colore, migliorare la pelle, incorniciare, metterci l’alone, aggiungere un testo (odioso vedere le foto con la firma sovraimposta come fossero state realizzate da Tina Modotti (per approfondimenti sulla Modotti fotografa si può accedere a molte pagine a partire da questa, nello stesso contenitore, tradotte anche in spagnolo: http://www.quintavenida.it/cultura-cubana/110-gocce-di-tina-gotas-de-tina/2272-tina-un-cuore-di-donna-mai-morto.html) e invece sono le nostre banalissime istantanee, scattate a raffica, incessantemente …). Si potrà fare tante altre cose, magari anche cumulando quello che fai con l’altro programma che è in tutti i p.c., Paint, senza arrivare a Photoshop ma l’importante sarà conservare sempre la foto originale (ripetizione, ripetizione, ripetizione che prima o poi tutti lo dimentichiamo e perdiamo l’originale ..). Ecco, si potranno fare molte cose ma vuoi mettere tutto ciò con il piacere della camera oscura, della scelta della carta (matta, lucida?), della possibilità di osservare l’immagine (pianificata o casuale che sia) che hai visto e fermato, mentre si forma di nuovo?

L’INIZIO
Nella certezza che ogni cosa abbia un inizio, sarebbe il caso di chiedersi dove sia nata nonché cosa davvero sia  la street – photography e non tanto che senso abbia, giacché nel web c’è tutto. Lo si dirà, anche se c’è tutto, nel villaggio globale s’intende, e lo si assume relativamente a moltissimi argomenti. A una verifica, seppure veloce, si giunge a un’altra verità parziale. Meglio sarebbe stato dire c’è di tutto. Naturalmente ci si imbatte anche in  affermazioni apodittiche e visioni personali affatto peregrine. Non è detto che sia un male. Si tratta di riconoscere anche il diritto di sbagliare e non sono rari i casi in cui dagli errori si partoriscono splendide realtà. Si dovrebbe sperare sempre di farne, se non altro per alimentare la polemica e crescere, per tentare di riempire il pozzo di ignoranza che in fondo si è. L’errore, peraltro, è rilevante anche nella fotografia e spesso è la caratteristica che fa apprezzare una fotografia. Si pensi alla vignetta che circondava l’immagine analogica per difetti originari e che adesso è eccessivamente sfruttata, anche con programmi digitali, per incrementare la capacità attrattiva del fotogramma che altrimenti sarebbe insulso. Si pensi pure alla fotografia lomografica, ovvero quella in cui si usano fotocamere 35 mm compatte LOMO (ЛОМО, acronimo di Ленинградское оптико-механическое объединение, ovvero: Leningrad Optics & Mechanics Amalgamation) e similari che, alla luce di note caratteristiche tecniche, non sono in grado di realizzare foto standardizzate per qualità, caso mai pregevole, e, peraltro, difettose nella resa della luce. Sono un must per molti e ci sono addirittura club di fotografi che coltivano la loro passione con entusiasmo raro. Per apprendere aspetti sorprendenti di questa specie di fotografia, nonché le dieci regole da sovvertire (utile farlo anche per comprendere come possa saltare l’esigenza di ripartire la fotografia paesaggistica applicando la regola dei terzi), basta andare qui.

Vale la pena segnalare che il motto di questi fotoamatori, chiaramente in linea con la situazione di chi voglia occuparsi di fotografia da strada, è:  «non pensare, scatta!»

UN ERRORE
Procedendo per ordine, forse val la pena segnalare che potrebbe esserci un errore qualora si volesse definire questo genere fotografico in poche parole, pur dovendosi qui tratteggiarlo per veloci schizzi, lasciando molti argomenti appesi. Clamoroso, poi, sarebbe l’errore se si interpretasse la sintesi in Inglese con traduzione letterale. Riservandosi di gettare altro colore chiarificatore, anche alla luce della migliore manualistica, può essere opportuno affrontare il tema per tentare di allargare i propri orizzonti. 

Che in questo caso si tratti di fotografia, ovvero di un’opera visiva nata grazie alla luce, è indubbio. Non è, invece, praticabile esclusivamente in the Street. Se è certo che nella strada c’è il mondo che si disimpegna su un segmento di asfalto, ormai ha coperto quasi tutto e certamente i selciati di mezza Italia, ogni tanto interrotto dalle piazze, affiancato da palazzi magari anche belli o interessanti fotograficamente (si pensi ai palazzi terremotati), non è detto sia l’unico contenitore in cui l’uomo spende parte della vita collettiva o davanti ad altri plausibili e distratti occhi umani. Compete allo sguardo fotografico di ognuno individuare altri spazi, altri formidabili contenitori di relazioni umane. Ciò dovrebbe essere utile alla necessità di evitare il rischio di attivare l’attenzione solo in uno dei teatri possibili. Sarebbe triste uscire la mattina, fotocamera in spalla, e andarsene in giro per il quartiere assumendo l’atteggiamento dell’investigatore col bavero alzato e lo sguardo indagatore proprio dove tutti ti conoscono e, invece, starsene inerti di fronte a ciò che accade in una chiesa, in un androne di palazzo, su una nave da crociera, in una piscina o in uno stadio, in alta montagna, in una galleria fotografica, in una metropolitana, in un cinema, in un lunapark e addirittura in luoghi in cui l’essere umano addirittura non appare.

UN ALTRO ERRORE POSSIBILE
La fotografia come arte ha iniziato il suo percorso grazie a nomi che converrebbe approfondire. Purtroppo l’operazione porterebbe molto lontano; la si tralascia facendo almeno quelli necessari e che certamente incisero nella definitiva scissione tra fotografia e pittura. Era, questa, agli inizi del ‘900, una necessità molto sentita. Tuttavia, si era profilata da tempo e, considerando come lo stesso Caravaggio usò lenti per produrre i suoi quadri, si capisce agevolmente quanto fossero profonde le radici della assimilazione quadro/fotografia d’arte.

Siamo a New York, a Ellis Island; tra gli immigrati, si aggira un fotografo freelance. È Lewis Hine. Le sue foto sono i primi urli della fotografia diretta, ovvero della straight photography. La codificazione del genere trova una grammatica più profonda nell’intervento di  Alfred Stieglitz e Paul Strand che diedero impulso al movimento noto come Photo Secession: si poneva l’obiettivo di affermare la fotografia come arte autonoma, in particolar modo la cosiddetta fotografia pittorialista, già profilatasi alla fine del XIX secolo. Furono loro, i pittorialisti, ad apportare alla fotografia la necessaria manualità che, coniugata con il gusto estetico, fece intravedere la possibilità di uscir fuori dalla serialità apparentemente scialba, se posta a fronte della pittura e della scultura. Il processo da essi utilizzato per produrre i singoli fotogrammi, paragonato all’attuale stato dell’arte (il digitale), farebbe mettere le mani nei capelli: uso della stampa alla gomma bicromata o al bromolio o stampa nata dalla combinazione di più negativi per produrre un unico positivo, una sola foto, quale sintesi di più scatti. In realtà, agli espedienti e alla strumentazione tecnica, parte dei pittorialisti aggiunsero il senso estetico maturato proprio praticando la pittura e la scultura. Non era stato difficile mutuare la sintassi di quelle arti da tempo affermate. L’applicazione alla fotografia non poteva che dare i risultati storici che si possono agevolmente individuare in fotografie che hanno fatto la storia e determinato gli altri successivi passi della cosiddetta fotografia d’arte. Da questo processo, partito grazie alla decisione di non usare nulla che rendesse le fotografie dei falsi, sia nella fase dello scatto che nel successivo sviluppo, nacque anche la figura del fotoreporter e la foto si affermò come documento.

E ciò pare in netta contraddizione con la voglia di fare arte con la fotografia.  Chiarificatrice suona l’affermazione di Walker Evans: Documentaria è la fotografia della polizia scattata sul posto di un delitto. Quello è un documento. Vedi bene che l’arte è senza utilità, mentre un documento ha un’utilità. Per questo l’arte non è  mai un documento, ma può adottarne lo stile. È quello che faccio io.

Dovrebbe emergere chiaramente come non si possa incorrere nell’errore di assimilare la stright photography alla street photography con cui si vuole restituire una immagine della società in chiave artistica e ironica, attraverso l’uso di obiettivi non complessi e l’uso del bianconero, che alimenta l’intervento della fantasia di chi legga le foto. A nessuno dovrebbe sfuggire, prestando un po’ di attenzione, come nelle foto di questo genere quel che il fotografo fa è semplicemente sottolineare eventi banali, di assoluta e quotidiana normalità. Cosa è un bacio a fronte di migliaia di labbra su labbra appoggiate in ogni attimo e dappertutto? Ma lo si immagini davanti all’obiettivo di Robert Doisneau, in strada, a Parigi. Da questo matrimonio nasce una foto storica che dovrebbe profilarsi nella mente di ognuno al solo leggere bacio e Parigi. Un gesto banale è, così, diventato arte allo stato puro.

ALTRI ERRORI
Certe convinzioni sono difficili da smontare e quel che accade in Italia si tende a universalizzarlo. Si pensi all’affermazione delle fotocamere digitali. Molti pensano che sia così dappertutto. Illuminante, forse, può essere il considerare che il più grande fotografo vivente in Italia, Gianni Berengo Gardin, ha scattato una sola foto digitale, su un milione e cinquecentomila fotografie! La verifica si può farla nella splendida intervista, corredata da meravigliose foto, a cura di Antonio Politano, qui.

Partendo, in ogni caso, dal presupposto che ormai tutti usino solo le fotocamere digitali, il nostro fotografo, quello che vuole fare arte fotografando per strada (e in altri luoghi …), se ne potrebbe mai uscire di casa bardato di tutto punto a partire da più obiettivi, anche quelli lunghi come veri cannoni, filtri, molteplici corpi macchina, affari per diffondere e misurare la luce, tra la folla? La risposta esplicita la evitiamo, segnalando che molti pervengono a piè pari alla convinzione che per questo genere di fotografia possa bastare una qualsiasi delle fotocamere dinamiche, quelle note come fotocamere mirrorless. Sono le fotocamere che qualcuno, con plastica sintesi, ha definito via di mezzo tra le fotocamere compatte e quelle digitali. Per definizione: sono quelle cui manca lo specchio ovvero l’espediente che consente una veloce messa a fuoco, inquadrando con esattezza quel che sta davanti al fotografo stesso e, quindi, davanti all’apparecchio. Ciò implica maggior velocità che ovviamente è richiesta per cogliere l’attimo significativo, quello che si sta compiendo e mai più si verificherà in strada (e in altri luoghi …). In ciò è anche la ragione del crescente successo di questo genere fotografico: maggior velocità di ripresa, maggior successo. 

Come è naturale e consequenziale, partendo da questo presupposto, non sarebbe certo osceno sostenere che per la street – photography potrebbero andar bene anche le fotocamere dei telefoni cellulari (spaventosamente potenti ormai) che tutti portiamo in giro come accessorio irrinunciabile. 

Limitando l’analisi alla necessità di saper coglier l’attimo (conseguenza dell’esercizio e del cosiddetto sguardo fotografico) è ovvio che questi strumenti potrebbero essere utili ma non bastano per sentirsi l’Henri Cartier – Bresson di turno. Il Maestro era mostruosamente esperto nel saper cristallizzare l’istante giusto ma occorrerebbe analizzare più profondamente il suo peso specifico di fotografo destinato a passare alla storia. Da una analisi più attenta, si scopre che la fotografia di strada in cui si sono disimpegnati i geni talvolta è stata frutto di pianificazione, non certo di casualità. Sarebbero moltissime le fotografie che si potrebbe indicare come tipicamente prodotte nell’ambito del genere fotografico che più sorprende e coinvolge. Tuttavia, e non suoni come blasfemo essendo storicamente vero, ci sono fotografie assurte al ruolo di simboli di talune epoche che, in realtà, furono frutto di un lavoro di posa.

Si pensi a una celeberrima foto, alla Marianna del ’68 che di primo acchito sembrerebbe essere un eccellente esempio di purissima street – photography. Tuttora, in più pagine del web, si legge che fu scattata per caso e divenne l’icona di un’epoca, rappresentando gli ideali di libertà di quei tempi. Era il 13 maggio 1968. Una giovane e bella ragazza se ne stava, tra la folla, a cavalcioni sulle spalle di un giovane (era un pittore). Il suo sguardo volitivo, emergente anche grazie ai capelli corti e alla vezzosa frangetta, era assolutamente coerente con il gesto: teneva in mano una bandiera del Vietnam. A osservare quei riflessi fissati per sempre, anche oggi, passano  in secondo piano, a esempio, l’ambientazione (quartiere latino di Parigi) e, addirittura, a voler spaccare il capello, finanche qualche difetto che sarebbe ampiamente scusato se lo scatto fosse stato casuale (l’inclinazione del palo della luce alle spalle della protagonista assoluta) e, di conseguenza, l’angolo prospettico del palazzo, in altro piano, ancora più lontano.

In realtà, quella ragazza era Carolina de Bendern, indossatrice appartenente a una nobile famiglia inglese, nata a Windsor. La si ammira insieme a studenti intenti a occupare la Université Paris-Sorbonne, quelli che gridavano proibito proibire; fate l’amore, non la guerra … L’immagine e anche la forma attuale della protagonista di quell’attimo, sono qui.

Come non bastasse e chiarendo i presupposti della foto, la protagonista ha poi dichiarato: Non ero una rivoluzionaria e, per fortuna, ha aggiunto che era contro la guerra in Vietnam. Sulla foto, invece, restando nel tema, come la stessa indossatrice ebbe a raccontare a Le Monde: Eravamo in marcia verso la Bastiglia. Volevano qualcuno che portasse la bandiera e io, che non ne potevo più di camminare, ho colto al volo l’occasione e sono salita sulle spalle di un compagno. All’improvviso, ho avvertito gli obiettivi su di me. È  stato istintivo, sapete, ero una modella… Il mio viso si è  fatto più grave, il gesto più solenne. Insomma, mi sono messa in posa. Essere stata protagonista cosciente di quella vicenda, come oggi si sa, quella Marianna lo pagò a caro prezzo: il conte Bendem la diseredò. Pericolosa la street – photography, quindi … Può esserlo anche per il fotografo, giacché occorrerà sempre fare i conti con la tutela della privacy e forse conviene andare in giro con la liberatoria pronta, qualora si intendesse utilizzare le fotografie sia in mostre che in concorsi. È per questo che occorre prepararsi bene prima di uscire. Non è possibile escludere del tutto il rischio di essere aggrediti e quindi un buon teleobiettivo potrebbe tornare utile. 

I PERICOLI-L’ETICA. CENNI
Come insegnò Robert Capa:  Se le vostre fotografie non sono abbastanza buone, vuol dire che non siete andati abbastanza vicino.

In realtà si riferiva non solo alla vicinanza fisica al soggetto ritenuto interessante. Aveva in mente il contesto umano che, a saperlo cogliere, consente di restituire la paura in uno sguardo, la vis comica di un gesto, la valenza politica attribuita a una posizione del corpo o a un gesto (un pugno chiuso, una bandiera agitata, una pistola tenuta con due mani e le ginocchia piegate …), e così via. È per tutto questo che è difficile definire la street – photography con poche parole. È certamente la ripresa di attimi di vita quotidiana, di ambienti e oggetti che assumono rilievo proprio perché fotografati,  ma non è detto che le faccende di contorno non possano essere pericolose per la propria incolumità o perché si potrebbe essere chiamati davanti a una magistratura per risarcire i danni da violazione della privacy, giustamente tutelata ma spesso in conflitto con il diritto di fare arte e cronaca. Ciò sempre, nell’ipotesi in cui la scena sia stata preparata come nella casualità, usando una Leica o addirittura fotocamere usa e getta. Non a caso il conflitto fotografi da strada/soggetti è storico e i primi hanno dovuto e devono difendere le loro scelte espressive. Giacché le parole hanno sempre senso ma non tutti i significati si riescono a trasferire quando la si scrive, sapendo che occorrerebbe approfondire, va almeno aggiunto che la foto da strada può avere molteplici altri significati e da segnalare c’è anche l’immediatezza del sarcasmo e dell’ironia. Si pensi pure ai fotogrammi che, messi in sequenza a velocità adeguata, ci restituiscono quel fenomeno a noi noto come candid e che è anche un sinonimo inglese di street – photography.

Per intuire la valenza del tema, si scelga una città a caso, Napoli, e sarà possibile intravedere una miniera di possibili declinazioni di questo genere fotografico, come hanno dimostrato e dimostrano i grandi fotografi partenopei ben capaci di riprendere l’attimo decisivo, cui era così legato Henri Cartier – Bresson. 

Non sfuggirà un fenomeno di cui si parla ancora poco: sono una infinità i fotografi da strada che, appena si muove foglia, tacchete!, la riprendono per spedirla a chissà chi. È in un buco nero, il web, dove finiscono milioni di foto scattate e consegnate inconsapevolmente all’oblio. Non ci sono dubbi sul fatto che di pregevoli è altamente probabile che ce ne siano ma non le conoscerà quasi mai nessuno. Ciò non toglie che sia stato utile fotografare in una qualunque occasione e per qualsiasi foglia caduta. Sarà certamente servito a formare l’impareggiabile e insostituibile occhio fotografico che viene comunque sempre prima dell’apparecchio. Senza quello non si potrà mai imparare a racchiudere la scena nella opportuna inquadratura, a cogliere ed enfatizzare l’attimo decisivo, quello carico di significati che la foto saprà segnalare e divulgare.

Domanda ineliminabile: al di là della forza attrattiva del buco nero, che fine faranno tutte quelle foto? Sicuramente pochi avveduti predispongono cartelle e  le salvano. Il fenomeno pare essere in aumento vertiginoso, inarrestabile, ma sulla qualità fotografica, ovvio, occorre forse stendere un velo, pietoso, va da sé. Eppure, basterebbe qualche attimo di attesa. Basterebbe tornare a casa e applicare la cosiddetta regola del tre (non la regola dei terzi, che si consiglia, eccetto rari casi, di usare nella fotografia naturalistica, da taluni considerato un tabù superabile come detto innanzi): dividere il numero di foto scattate per tre, scegliendo le migliori; ripeterlo ancora e ancora e poi, caso mai, conservare, spedire, stampare. 

PARIGI: CULLA DELLA STREET PHOTOGRAHY? 
È diffusa la convinzione che sia stata Parigi la città dove questo genere fotografico si perfezionò. D’altronde, nessuno potrebbe negare quanto la fotografia abbia contribuito a renderla così come è, anche nell’immaginario di ogni cittadino del mondo: bellissima. Eppure, tutto sommato pochi decenni prima,  agli occhi di un napoletano verace quale fu Gian Lorenzo Bernini, la città era apparsa brutta appena da lontano ne vide i tetti in ardesia e al suo arrivo. Era ormai anziano, chiamato per ricostruire il Louvre, ma certamente capace di esprimere sapienti giudizi sulla bellezza architettonica. In tal senso non è certo disdicevole ritenere Eugene Atget il padre della street – photography. In realtà, tuttavia, la convinzione poggia sul fatto che egli era molto noto, avendo lavorato in quella capitale per circa trenta anni a far data dal 1890. Si prese la briga di fotografare scrupolosamente ogni strada, con il corredo di attimi, vicende e persone che restarono nel tempo, fissi nelle sue foto. 

Prima di lui, tuttavia, si era disimpegnato John Thomson, scozzese, ma lo si ricorda soprattutto perché consentì l’iter dalla foto di studio, in cui produsse eccellenti ritratti, alla vita lentamente trascorsa nelle strade e facilmente riproducibile, seppure con lentissimi tempi di ripresa.  

Michela Orlando
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